La Congregazione di Santa Maria “Succurre Miseris”
RUBRICA – DIVINI DEVOTI
A pochi passi dall’attuale Piazza Guglielmo Marconi, nella chiesa aversana di Santa Maria “Succurre Miseris” (oggi diruta e di proprietà privata) risiedeva un tempo la Confraternita di San Giovanni Decollato, anche detta “Compagnia dei Bianchi“. Per sineddoche con la propria chiesa il sodalizio è riportato in molti testi con il titolo di “Congregazione di Santa Maria Succurre Miseris“.
La confraternita è scomparsa ormai da tempo ma non sono poche le informazioni che siamo riusciti a trovare. Spesso infatti si parla della congrega in relazione alla chiesa di Santa Maria Succurre Miseris limitandosi a descrivere la principale attività dei confratelli: assistere i condannati a morte. La chiesa infatti è anche nota come <<‘a Cappella ‘e ‘Mpisi>> (la Cappella degli Impiccati). Uno degli studiosi che veramente si è interessato a 360° della storia della chiesa, della confraternita e dei loro legami con Aversa è Lello Moscia in “Aversa: tra vie, piazze e chiese” (per rispetto riportiamo al termine di questo articolo la pregevole descrizione di Moscia).
Il sodalizio, che secondo Gaetano Parente fu fondato intorno al 1545, continuò a svolgere la propria missione almeno fino alla seconda metà del XIX sec. Questa consisteva nell’assistere ed accompagnare al patibolo i condannati, prodigando loro un’assistenza sia umana che religiosa. Infatti le sentenze del Tribunale di Campagna, che risiedeva a Grumo Nevano, per legge si dovevano tenere ad Aversa. Ma non era la sola confraternita in diocesi che si occupava di questa particolare forma di assistenza.
Anche presso altri “casali” di Aversa, come per esempio Giugliano, erano istituite delle confraternite per ottemperare ai medesimi compiti. Sappiamo, dallo storico giuglianese Agostino Basile, che il sodalizio aversano era aggregato all’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato di Roma e che in virtù di ciò, a metà del XVII sec., la compagnia omonima di Giugliano fu “aggregata” a quella aversano dopo una lunga vertenza in base alla privativa “quoad alios“.
In effetti erano numerosi i sodalizi detti “dei Bianche” nel Regno di Napoli. Alcuni, come nel caso della capitale, esistevano fin dal medioevo ed erano nati dall’impulso della predicazione dei francescani e dei domenicani. Come riporta lo studio di Nello Ronga già nel XV sec. le compagnie praticavano opere carità e di misericordia, spesso si trattava di soccorsi ai bisognosi (da qui il particolare titolo mariano “Succurre Miseris“) ed ancora più frequentemente del seppellimento dei defunti, della visita ai carcerati ed ovviamente dell’assistenza per i condannati a morte. Non era raro, in un sistema sociale per molti aspetti diverso dal nostro, che queste confraternite si trovano a confortare chi finiva incarcerato a causa di debiti.
Come nel caso del sodalizio napoletano anche la Compagnia dei Bianchi di Aversa era composta da persone di alto rango. Dal censimento dei parroci sulle confraternite ed i luoghi pii, voluto dal vescovo Niccolò Borgia tra 1777-1778, veniamo a sapere che era composta sia da laici che da ecclesiastici e che in quel momento il priore era don Mario del Tufo (appartenente ad una della famiglie storiche del patriziato aversano). Con lui amministravano il sodalizio altri quattro governatori: don Giovanni Moles, il marchese del Tufo, il commendatore del Tufo e, con le funzioni di tesoriere, il reverendo parroco don Agostino Iovene.
Oltre che assistere i condannati e sostenere gli eventuali bisogni delle loro famiglie, il sodalizio aversano si faceva carico anche di far celebrare le messe e di promuovere la festa di San Giovanni Giovanni Battista e Decollato e di manutenere la chiesa di Santa Maria Succurre Miseris.
In effetti questa era l’unica proprietà della congrega di cui abbiamo notizia. Dobbiamo credere quindi che, non avendo beni propri nè possedendo altre rendite, per ottemperare al <<peso di confortare e seppellire li condannati a morte per mano della giustizia>> i suoi facoltosi confratelli provvedessero a compensare con i propri beni le “questue” che si facevano in giro per la città.
La congrega, a differenza di molti sodalizi aversani, non prendeva parte alle processioni cittadine. Probabilmente, proprio in virtù della notorietà di molti confratelli, la confraternita era una “congregazione cappucciata” in modo da garantire l’anonimato. Portavano quindi un sacco o tunica ed un cappuccio di colore bianco, da qui il soprannome di “Compagnia dei Bianchi“.
Come si svolgeva quest’assistenza [ai condannati a morte]?
Ricevuta notizia di una condanna a morte, il priore riuniva i confratelli nella Chiesa di “santa Maria succurre miseris” per organizzare sia per la notte sia per il giorno l‟assistenza al condannato. Quindi si stabiliva chi, durante i tre giorni prima dell‟esecuzione, dovesse provvedere al vitto del condannato, e chi invece dovesse andare per la città, facendo la questua per le sante messe. Nel frattempo si avvisavano i sagrestani della Cattedrale, perché, al momento dell‟esecuzione, suonassero le campane con rintocchi scordanti cioè a morto, per invitare tutti quelli che sentivano quel suono, a pregare per la salvezza eterna del giustiziato. Poi, dopo però che l‟incaricato del Tribunale di Campagna aveva letta la sentenza di morte al reo, con una cadenza di due ore in due fino al momento del supplizio, una coppia di confratelli, accompagnati da un chierico, vestiti di sacco e cappuccio cioè della loro divisa per non farsi riconoscere, col Crocefisso in mano, con passo lento e misurato, recitando le litanie della Vergine, si recava nella prigione. Qui, il giorno successivo alla lettura della sentenza di morte, si inviavano un sacerdote con un altare portatile per celebrare messa e due “ecclesiastici”, dice il documento, di cui uno aveva il compito di preparare il malcapitato alla Comunione e l‟altro di aiutarlo a fare il ringraziamento. Giunta l‟ora in cui il reo doveva essere condotto al patibolo, i confratelli, in numero sempre pari da sei a dieci, in parte laici e in parte sacerdoti, in processione e col gonfalone della Congrega, si recavano nel luogo di detenzione. Giunti nel cortile del carcere, si disponevano in semicerchio, aspettando che le guardie conducessero fuori il condannato. Questi, prima che il carnefice lo cingesse di funi, era accettato come confratello nella congrega. Tutto ciò per fargli lucrare le indulgenze concesse appunto alla congrega. Infine, legato, era condotto al luogo in cui doveva essere eseguita la condanna. A quaranta passi dal patibolo, il confratello designato a fare la scala cioè ad accompagnare fin sul patibolo il reo, predisponeva questi per l‟ultima volta a ricevere l‟assoluzione. Infine, percorrendo l‟ultimo tratto, gli faceva recitare ad alta voce il Credo, l‟atto di pentimento dei peccati, l‟atto di speranza, le invocazioni alla Madonna e ai santi. Infine, dopo che era stata eseguita la sentenza, i confratelli recitavano il Salmo De profundis.
di Lello Moscia
© Testo di Angelo Cirillo
In copertina: Particolare del portale d’ingresso di Santa Maria Succurre Miseris – (se si condivide l’articolo indicare le fonti).